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FELLINI : UN RITORNO A LOCARNO IN PIAZZA CON "LA CITTÀ DELLE DONNE"

Col cinema del Grande Federico il rapporto non può che essere passionale. Non fa parte di quei cineasti dei quali puoi parlare in terza persona, ed esaminarne freddamente le intenzioni, i risultati, i contenuti, le forme. Con Fellini, inevitabilmente, si va incontro alle reazioni personali, di amore e odio. Confesso il mio amore per I VITELLONI, LA DOLCE VITA e OTTO E MEZZO. Ed il mio fastidio per GIULIETTA DEGLI SPIRITI o per il SATYRICON. Più recentemente, il mio affetto per AMARCORD, accorato e tenero. E, soprattutto, per quel CASANOVA che tanti trovano freddo, accademico e noioso. E che invece mi sembra uno dei film più grandi di Fellini, uno di quelli nei quali, sotto la vernice dello straordinario decoratore, dell'inventore di fantasie sfrenate, si riconosce l'uomo, la sua solitudine, la sua paura dì invecchiare, di diventare quella specie di mostruoso manichino, prigioniero del proprio fascino, della propria arte di seduzione ormai inaridita. Avrete intuito la mia delusione nei confronti di LA CITTA' DELLE DONNE, alla quale soltanto i resti gloriosi di uno stanco inventore di forme cinematografiche concedono qualche impennata. Del film si sa soprattutto che dà fastidio alle femministe, perché vi si ripropongono certi aspetti risaputi di quel movimento. Direi che sia una questione secondaria, poiché il film non è sicuramente un'opera sulle donne, ma, come sempre in Fellini, sull'uomo, per non dire su se stesso. Semmai ci si potrà rammaricare del fatto che per l'autore la donna, o perlomeno quello che della donna sembra traumatizzarlo da sempre, sia riconducibile ai seni, alle cosce, ai sederi più o meno sfatti e decomposti.

Ma questo è un problema suo. A noi interessa vedere con quale grado di invenzione, di fantasia, diciamo di poesia, Fellini riesca a tradurci queste sue preoccupazioni. E, visto in questa prospettiva, mi sembra difficile negare che La città delle donne assomigli ad una stanca ripetizione di OTTO E MEZZO. Nel Fellini che ricorda, non c'è sicuramente la nostalgia fertile di AMARCORD, nell'odio nei confronti di un personaggio, non sicuramente quell'umanItà con la quale finiva col circondare CASANOVA; nel significato dell'apologo, quanto serve all'autore per collegare il suo sogno alla realtà contemporanea, non l'opportunità graffiante di PROVA D'ORCHESTRA.

Certo, il genio di Fellini non lo si discute qui, ed è chiaro che qualche zampata rimane: la prima mezz'ora, con il bravo (anche se pure lui ormai ripetitivo) Mastroianni che se ne va ad inseguire il suo ideale femminile su dei registri che godibilmente si situano a mezza strada tra l'assurdo e l'umoristico (quel treno che si ferma in mezzo alla campagna). O la parte finale, nella quale la scenografia imprime fortemente nei significati del racconto e che si conclude nella sequenza più originale e significativa del film, la sparatoria, tragica finalmente, contro il protagonista sul pallone-donna,

Ma tutto l'episodio del congresso femminista, per non parlare delle sequenze interminabili centrate sul supermaschio Kazzone, appartengono al Fellini più stanco. Gli argomenti sono fritti e rifritti, le armi della polemica spuntate. Non voleva essere polemica ma soltanto sogno, delirio, invenzione? Ammettiamo allora che anche l'invenzione è spesso assente del tutto, che tutto ciò l'avevamo già visto, ed in maniera ben superiore, nell'opera precedente del regista.

Fellini, di tutti i grandi del cinema, è sicuramente quello che maggiormente impone allo spettatore le proprie tribolazioni d'uomo. Perché lo si accetti, occorre che questo suo desiderio di confessione sia filtrato da quella magia nell'invenzione che egli possiede in maniera divina. Se questa, come ne LA CITTA' DELLE DONNE viene a mancare, allora anche le sue confessioni, invece che meraviglia producono soltanto noia e fastidio.

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FELLINI: A RETURN TO LOCARNO WITH CITY OF WOMEN

With the cinema of the Great Federico, the relationship can only be passionate. He is not one of those filmmakers of whom you can speak in the third person, and coldly examine his intentions, results, contents, forms. With Fellini, one inevitably goes through personal reactions, of love and hate. I confess my love for I VITELLONI, LA DOLCE VITA and 81/2. And my annoyance for GIULIETTA DEGLI SPIRITI or SATYRICON. More recently, my affection for AMARCORD, heartfelt and tender. And, above all, for that CASANOVA that so many find cold, academic and boring. Instead, it seems to me to be one of Fellini's greatest films, one of those in which, under the varnish of the extraordinary decorator, of the inventor of unbridled fantasies, one recognises the man , his loneliness, his fear of growing old, of becoming that sort of monstrous mannequin, prisoner of his own charm, of his own art of seduction, now withered away. You will have guessed my disappointment with CITY OF WOMEN, to which only the glorious remnants of a tired inventor of cinematic forms concede any surge. What is known about the film is above all that it annoys feminists, because certain well-known aspects of that movement are repeated in it. I would say this is a secondary issue, since the film is definitely not a work about women, but, as always in Fellini, about man, not to say about himself. If anything, one might regret the fact that for the author, woman, or at least what seems to have always traumatised him about women, can be traced back to breasts, thighs, and more or less unmade and decomposed butts.

But that is his problem. We are interested in seeing with what degree of invention, imagination, let's say poetry, Fellini manages to translate these concerns of his. And, seen from this perspective, it seems hard to deny that La città delle donne resembles a tired repetition of 81/2 In the Fellini he remembers, there is certainly not the fertile nostalgia of AMARCORD, in the hatred towards a character, certainly not that humanIty with which he ended up surrounding CASANOVA; in the meaning of the apologue, what the author needs to connect his dream to contemporary reality, not the biting opportunity of PROVA D'ORCHESTRA.

Of course, Fellini's genius cannot be questioned here, and it is clear that some gushes remain: the first half-hour, with the good (though also now repetitive) Mastroianni who goes off in pursuit of his feminine ideal on registers that enjoyably lie somewhere between the absurd and the humorous (that train that stops in the middle of the countryside). Or the final part, in which the set design strongly imprints on the narrative's meanings and which ends in the film's most original and significant sequence, the shoot-out, tragic at last, against the protagonist on the balloon-woman,

But the whole episode of the feminist congress, not to mention the interminable sequences centred on the superman Kazzone, belong to the most tired Fellini. The arguments are fried and refried, the weapons of polemic blunted. Was it not meant to be polemic but only dream, delirium, invention? Let us admit then that even invention is often completely absent, that we had already seen it all, and in a far superior manner, in the director's previous work.

Fellini, of all the greats of cinema, is certainly the one who most imposes his own human tribulations on the spectator. For this to be accepted, it is necessary that his desire for confession be filtered through that magic in invention that he possesses in a divine manner. If this, as in CITY OF WOMEN is lacking, then even his confessions, instead of wonderment, produce only boredom and annoyance.

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